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Il cambiamento, affare dei giovani   versione testuale
18 novembre 2020

Dovevano incontrarsi a marzo. Faccia a faccia. Ad Assisi. Al cospetto dei due Francesco. Colui che 8 secoli fa diede precise indicazioni di vita per cambiare l’economia, oltre che la Chiesa e il concetto di santità. Colui che oggi, da Papa, non smette di sollecitare la ricerca di percorsi, anche economici e produttivi, che ci conducano a riconoscerci Fratelli tutti. Ma poi è arrivata la pandemia, e il grande raduno in presenza si è trasferito sui sentieri del digitale, percorsi per mesi da migliaia di giovani di tutto il mondo, destinatari dell’invito, protagonisti di un lungo percorso di studio, analisi, progettazione. Che giunge ora al suo momento culminante: da domani e per tre giorni, sino al 21 novembre, Assisi sarà palcoscenico centrale di L’economia di Francesco – The economy of Francesco, adunata digitale planetaria dedicata al tema “I giovani, un patto, il futuro” (e promossa da diocesi e città di Assisi, Istituto Serafico ed Economia di Comunione, in collaborazione con il Dicastero vaticano per lo sviluppo umano integrale e altri soggetti).
Suor Alessandra Smerilli, che insegna Economia politica alla Pontificia Facoltà di Scienze dell’Educazione Auxilium, è membro del comitato scientifico di The Economy of Francesco. Ha visto lievitare il confronto tra giovani di ogni angolo del pianeta che si attendono un reale cambiamento dell’economia. E spiega cosa dobbiamo aspettarci dall’energia progettuale che si concentrerà ad Assisi, e che poi bisognerà fare lo sforzo di non disperdere.
 
Suor Alessandra, una domanda frontale, per cominciare: perché un operatore di carità dovrebbe aver interesse al cambiamento dei modelli economici? Fraternità, solidarietà e accoglienza sono valori che alimentano pratiche storicamente fiorite in contesti economici tra loro molto diversi, persino opposti…
Per la carità c’è spazio sempre, in qualunque contesto e con qualunque modello. La carità cristiana ha senso sempre, in qualunque contesto, perché è costitutiva dell’essere cristiani. E allora, perché chi si occupa di carità dovrebbe essere interessato al cambiamento dei modelli economici? Io credo perché se l’economia non funziona, se le disuguaglianze aumentano, se si produce sempre più concentrazione di ricchezza, avremo tante persone che cadono sotto la soglia della povertà, e bisognerà attivarsi sempre di più, magari non riuscendo ad arrivare a tutti. Invece, più funziona l’economia e più i modelli sono inclusivi, più chi si occupa di carità può cercare o sperare di arrivare davvero a tutti. Oggi si rischia di non raggiungere neanche i poveri, per quanto l’area della povertà si sta allargando...
 
I poveri, appunto. «Li avete sempre con voi e potete beneficarli quando volete», dice Gesù nel capitolo 14 del Vangelo di Marco. Non è troppo ambizioso ritenere che cambiando l’economia si possa eliminare la povertà, la quale in ultima analisi dipende dal peccato che alberga nel cuore dell’uomo, e che sempre genererà “strutture di peccato”?
Domanda complicata, risposta non semplice. Ho sempre criticato chi si pone come obiettivo eliminare la povertà, perché sappiamo che non è possibile. E poi ci sarebbe da aprire un discorso ulteriore: quale povertà vogliamo eliminare? Sappiamo che povertà è una parola che attraversa uno spettro semantico che va dal negativo della miseria e dell’esclusione, alla scelta della sobrietà e del vivere con poco perché tutti possano vivere. Dire che ci si propone di eliminare la povertà significa dunque dire qualcosa di al limite non evangelica, se si pensa alla povertà come virtù. Detto questo, è vero che il peccato alberga nel cuore dell'uomo e che per quanto ci si possa impegnare a cambiare i modelli, alla fine tutto dipende da come operano le persone reali (gli imprenditori, i datori di lavoro, chi si occupa di finanza…). Nello stesso tempo, ci sono strutture più o meno inique, che possono favorire o meno certi tipi di esclusione. I paradisi fiscali, per esempio: finché avremo modelli e prassi per cui alle imprese conviene avere le sedi legali dove non si pagano tasse, non potremo attuare i meccanismi redistributivi che permettono la solidarietà dentro uno stato. Ho citato solo un esempio: per dire che bisogna lavorare per cambiare alcune strutture, ma questo non vuol dire proporsi di eliminare la povertà. Vuol dire battersi per porre le condizioni di una maggiore equità.
 
“Il grido dei poveri” e “Il grido della terra” sono al centro del magistero dell’attuale Papa sin dai suoi inizi. Sono lo stesso grido? O una connotazione davvero green, e i costi della sostenibilità, se li possono permettere solo economie performanti, efficienti, altamente produttive, che inevitabilmente producono un certo tasso di esclusione sociale?
Sicuramente il grido della terra e il grido dei poveri sono intimamente legati: gli sforzi che vengono fatti per un maggior rispetto della terra hanno dei costi, e si capisce che i più poveri (stati e individui) non possono permettersi alcuni di questi sforzi. Un esempio banale: quando si decide di dare incentivi per le auto elettriche, chi è che non si può permettere di cambiare l’auto e di passare a un altro modello? Sono i più poveri. Quindi è chiaro che il tema c’è. Però se noi non facciamo questi sforzi, se non rispondiamo a questo grido della terra, gli effetti dei cambiamenti climatici e gli effetti dei nostri consumi che non sono rispettosi dell’ambiente (parlo dei consumi del mondo occidentale) si riverseranno per la maggior parte sui paesi che già sono vessati, dove i più poveri hanno ancora meno possibilità. Non possiamo far subire ad altri le conseguenze dei nostri consumi e dei nostri sprechi. Ci sono studi che misurano il cosiddetto “debito ecologico” contratto dai paesi che consumano di più nei confronti di altri paesi. Non dobbiamo esasperarlo. In questo senso il grido della terra e il grido dei poveri stanno insieme. O si guarda alle due dinamiche congiunte, o chi ci rimetterà, oltre a non avere un pianeta abitabile, saranno sempre i più poveri.
 
Siamo abituati a modelli economici i cui motori etici e psicologici sono l’interesse privato, il desiderio di successo e benessere, la competizione. Storicamente hanno dimostrato di funzionare, anche se solo per alcuni: sono da sostituire in toto? I concetti di comunione, cooperazione e inclusione possono alimentare un’economia altrettanto dinamica, innovativa, non assistita?
Storicamente abbiamo constatato che questi motori hanno generato uno sviluppo senza precedenti. Non possiamo negare che negli ultimi anni, almeno fino alla crisi finanziaria e fino alla pandemia, vedevamo costantemente ridursi nel mondo il numero dei poveri, sia “assoluti” che “relativi”. Abbiamo visto, però, quale tipo di sviluppo è stato promosso, e con quali conseguenze per il pianeta. La pandemia ha rivelato alcuni dei limiti di questo modello: un certo tipo di sviluppo, individualistico e mirato alla massimizzazione dei profitti, è entrato anche nel modo di organizzare le finanze statali, e così nel momento in cui si aveva bisogno di preparare una forte risposta pubblica all’emergenza, ci si è ritrovati impreparati. Adesso non è che bisogna rovesciare tutto; bisogna però comprendere che cooperazione e competizione possono stare insieme. E che la competizione stessa può essere vista in un altro modo: in una logica di cooperazione per il bene comune, si può competere per soddisfare meglio le esigenze del consumatore, si può gareggiare a chi diventa il migliore per servire meglio l’altro. Più che cambiare i motori e valori, vanno cambiate le logiche che muovono l’economia e l’impresa. Sicuramente non abbiamo bisogno di un sistema assistenzialistico. Però chiaramente abbiamo bisogno di un modello che risponda alle povertà emergenti, e soprattutto allo schiacciamento dei tantissimi posti di lavoro cui si assiste in questa fase storica. Qualcosa va fatto, e va fatto a livello collettivo e cooperativo.
 
Il mondo pre-Covid era una cosa, poi la pandemia ha innescato cambiamenti per certi versi impensabili sino a poco tempo fa, riguardanti anche le politiche economiche, fiscali, industriali, oltre a quelle sanitarie. Il virus ha costretto gli uomini a prendere coscienza di un destino comune, o è un’illusione?
Io mi auguro che questa tendenza non rientri. E personalmente sto e stiamo lavorando per questo. Spero che questo periodo storico riesca a farci comprendere davvero che siamo legati gli uni agli altri e che possiamo uscirne solo insieme. Ciò vuol dire organizzare iniziative di solidarietà, ma anche pensare a strutture e a politiche economiche e fiscali che vadano a rinsaldare il patto tra cittadini, per cui se uno cade in disgrazia c’è una società pronta a farlo rimettere in piedi.
 
Veniamo a Economy of Francesco, iniziativa che chiama a raccolta giovani di tutto il mondo. Significa che il cambiamento è rimandato alle generazioni di domani, e che l’economia e la finanza di oggi hanno rigidità insuperabili? 
Due considerazioni. Uno: i giovani sono il nostro presente, non sono il nostro futuro. A volte lasciamo loro poco spazio, poca possibilità di esprimersi. Quindi ci perdiamo il nuovo che riescono a portare, e che ho visto emergere in questi mesi di preparazione a Economy of Francesco. I giovani hanno lavorato divisi in 12 villaggi tematici sui temi della finanza, delle disuguaglianze, dell'impresa, del management. Hanno lavorato su tanti argomenti, con grande responsabilità, capacità, creatività, ma nello stesso tempo hanno avanzato anche proposte concrete. Certo: i giovani da soli non potrebbero far nulla, se non ci fosse oggi chi è disposto a cambiare qualcosa. Non stiamo rimandando al futuro, stiamo invocando un’alleanza tra giovani e adulti perché davvero qualcosa possa cambiare. Chi si è formato in un certo modo e per decenni ha portato avanti alcune istanze, è difficile che cambi il proprio modo di pensare e di agire. Ma può comprendere la necessità di un cambiamento, e aprire spazi ai giovani, che lo aiutano e ci aiutano a guardare la realtà secondo altre prospettive.
 
In base a quanto emerso dal lungo cammino preparatorio dell’evento, i giovani dei diversi paesi del mondo nutrono le stesse attese riguardo ai cambiamenti dell’economia? O sono influenzati da condizioni di vita, bisogni, contesti politico-culturali inevitabilmente distanti? E qual è l’aspirazione più diffusa?
Ho visto lavorare giovani di tutti i continenti e di ogni estrazione sociale lungo il percorso verso Economy of Francesco. È incredibile constatare quanti temi, desideri e attese abbiamo in comune. Per esempio, chiedono tutti di far rete tra loro, per poter riportare davvero la persona al centro dell’economia, per cambiare alcune logiche della finanza, del mondo del lavoro. Si constata che ad ogni latitudine ci sono desideri comuni ai giovani, e che il desiderio più grande è lavorare insieme con gli altri. D'altra parte, però, questo percorso comune, fatto attraversando tutti i continenti, ha aiutato noi e i giovani stessi a renderci conto che quando parliamo di condizioni di precarietà ci riferiamo a situazioni anche profondamente diverse, a seconda che ci si riferisca all’Italia e all’Europa, all’Africa o all’Estremo Oriente. Il fatto che alcuni si siano resi conto di appartenere a contesti comunque più fortunati di altri e ha generato un desiderio ancora maggiore di solidarietà e di lavoro comune.
 
Le proposte, le attese, le idee, le pratiche innovative elaborate dai giovani nel percorso “towards the Economy of Francesco”, verso l’evento on line planetario che li attende: avranno ricadute concrete, misurabili, generative? Qual è il risultato principale che si attende da questo movimento?
I quasi tremila giovani che hanno compiuto il percorso preparatorio chiedono cambiamento. E sanno che per ottenerlo devono promuovere cambiamento a partire dalla propria vita. Detto questo, hanno anche ragionato su proposte concrete e specifiche da fare a governanti, imprenditori, uomini della finanza. Proposte piccole e grandi, progetti più o meno estesi o complicati. Io mi auguro che tutti questi progetti trovino chi sia disposto ad accompagnarli: come dicevo, i giovani da soli non possono tradurli in atto, né un comitato organizzativo come quello di Economy of Francesco può seguirne passo dopo passo l’esecuzione. La mia speranza è che tanti decisori politici ed economici si prendano la paternità di questi giovani e l’onere dell'accompagnamento di alcuni progetti, intuendo la loro capacità di generare un cambiamento a cascata. Sono progetti che mirano ad accompagnare la nascita di imprese, a una diversa regolamentazione della finanza, a modificare il modo di insegnare l’economia e di studiare, a cambiare indicatori e misure per poter guardare con occhi giusti ai fenomeni economici. E avere di conseguenza politiche mirate.
 
Come contate di far rifluire gli esiti dell’Economia di Francesco non solo verso il mondo giovanile in generale, ma anche verso il più ampio mondo ecclesiale, le parrocchie, le associazioni, i movimenti, i singoli fedeli? La rete Caritas può avere un ruolo in questo sforzo?
Tutto quello che verrà presentato durante l’evento dovrà essere messo a disposizione anche on line, in modo che riesca a essere autentico motivo di interesse per tanti. Credo che la rete Caritas possa avere un grande ruolo in questo processo di disseminazione. In Italia, con le Settimane sociali abbiamo intenzione di richiamare i giovani che hanno compiuto questo percorso, per potere fare insieme a loro proposte che siano valide per l’intero paese. Sarebbe bello che la Chiesa italiana, e la Caritas in quanto organismo che ci ricorda chi e dove sono i poveri, ci aiutino a capire come si può tendere una mano, quali sono le situazioni che hanno maggiore bisogno di progetti di sviluppo. Spero che l’intera Chiesa italiana e in essa la rete Caritas possano farsi interpellare dal lavoro dei giovani, e nello stesso tempo possano diventare loro partner, accompagnatori di alcuni dei loro progetti.
 
Paolo Brivio